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Oramai lo sappiamo. Il colore, o meglio quello che noi percepiamo come tale, dipende dalla luce. In breve quando la luce colpisce un qualsiasi oggetto, diverse lunghezze d’onda vengono assorbite o riflesse. E i circa 6 milioni di coni che si trovano nella retina dell’occhio umano sono pronti a suggerire al nostro cervello di che colore si tratti. Bianco se riflette tutte le lunghezze d’onda della luce, nero se le assorbe tutte. E in mezzo ci sono tutte le infinite sfumature dei colori, che corrispondono ad altrettante lunghezze d’onda riflesse. Non proprio tutte, per la verità, ma solo la fetta che noi chiamiamo “spettro visibile”: quelle dai 400 ai 700 nm. Ovvero quelle che i tre tipi di coni del nostro occhio – sensibili a blu, verde e rosso – ci consentono di vedere. Ma il colore varia anche a seconda delle condizioni di luce: che sia quella del Sole in diverse ore del giorno o quella di una lampada, il risultato sarà diverso.

Nella percezione dei colori noi umani superiamo di gran lunga molti animali, ma non possiamo certo vantarci di essere dei campioni. Il vero fuoriclasse del regno animale, infatti, abita in un luogo già di per sé ricco di tutte le sfumature immaginabili: la barriera corallina. È la canocchia pavone (Odontodactylus scyllarus) che ha ben 16 tipi di coni differenti. Altro che i nostri tre. E se il confronto uomo-crostaceo è impietoso, quello con farfalle e uccelli è comunque deludente. Questi animali infatti hanno quattro tipi differenti di coni, cosa che consente loro di vedere l’ultravioletto a noi invisibile. Così se una canocchia pavone potesse osservare un corallo con i nostri occhi lo troverebbe scolorito. Mentre se noi osservassimo i fiori con gli occhi di una farfalla noteremmo un disegno perfetto di tonalità violacee concentriche, che conduce dritti al centro di un fiore, dov’è custodito il nettare: il premio prezioso per chi si imbratta di polline ad ogni fiore visitato.

La percezione del colore, quindi, non è uguale per tutte le specie, ma anzi deve fare i conti con la biodiversità interspecifica, cioè con le differenze tra specie diverse. Ma c’è di più: varia anche a livello intraspecifico, vale a dire all’interno della stessa specie.

La percezione dei colori, infatti, è un processo soggettivo. È una risposta del nostro cervello alle stimolazioni della luce, che varia da persona a persona. Perciò possiamo dire che “il rosso che vedo io non è quello che vedi tu”. E lo stesso vale per tutti i colori. Questo perché ognuno di noi ha un’organizzazione dei coni differente: la percentuale dei tre tipi, sensibili a rosso, verde e blu, varia da persona a persona. E questo rende uno stesso colore leggermente dissimile agli occhi di persone diverse. Anche se nelle donne, al contrario dei maschi, si sa, i coni sono molti di più. Altrimenti come farebbero a distinguere un cardigan rosso borgogna da uno bordeaux, una camicetta blu Bondi da una cerulea, uno scatolino turchese da uno color uovo di pettirosso, un vestito solidago da uno ocra?

Scherzi a parte, possiamo dire che il riconoscimento dei colori è l’insieme di un fenomeno fisiologico e di uno psicologico. Questo perché nella distinzione dei colori conta anche l’esperienza. Infatti siamo comunque portati ad attribuire un colore unico a ogni oggetto a prescindere dalle condizioni di illuminazione. Il cielo è blu, il mare anche, le fronde degli alberi sono verdi, il pomodoro rosso. Questo fenomeno si chiama “costanza percettiva” ed è dovuto all’intervento del nostro cervello che ricorda e rimescola le esperienze visive pregresse.

Nel variegato mondo dei colori anche il bianco e il nero, in realtà, hanno sfumature e toni diversi. Questo discorso, però, non vale per il “nero che più nero non si può”: il Vantablack. Una sostanza composta da nanotubi di carbonio, ciascuno dei quali 10.000 volte più sottile di un capello, e tutti allineati verticalmente. Il risultato è un materiale, brevettato dall’azienda britannica Surrey NanoSystems, che assorbe il 99,96% della luce visibile. Il 99,965% a esser pignoli. Un nero che fa quasi impressione, e i cui diritti di utilizzo in ambito artistico sono stati acquistati in esclusiva – e non senza polemiche – dall’artista britannico Anish Kapoor. Ma se pensavamo di aver inventato “il nero più nero” grazie alla tecnologia, beh siamo arrivati tardi. Perché la natura ci ha già pensato da diversi millenni.

Infatti, stando al recente studio pubblicato su Nature Communications da un team di biologi statunitensi, il primato spetterebbe ad alcuni uccelli del paradiso (Paradisaeidae). Le loro penne di un nero davvero intenso assorbirebbero il 99,95% della luce incidente. Appena un centesimo in meno del Vantablack. E questo grazie alla loro struttura. Osservate al microscopio, le penne della paradisea superba (Lophorina superba), dell’uccello fucile del paradiso (Ptiloris paradiseus), dell’astrapia della principessa Stefania (Astrapia stephaniae), della paradisea dalle dodici penne (Seleucidis melanoleucus) e di quella delle sei penne (Parotia wahnesi) risultano molto frastagliate. Tanto da avere una struttura frattale, e somigliare secondo gli autori a «barriere coralline o alberi con tantissime foglie». Così quando la luce del sole colpisce questi animali, rimbalza continuamente tra le microstrutture della superficie frastagliata delle penne e viene assorbita quasi del tutto, creando un nero quasi assoluto. Un nero che gli occhi umani fanno fatica quasi a mettere a fuoco e che, secondo i ricercatori, serve a mettere in risalto le piume coloratissime che questi eccezionali ballerini-trasformisti utilizzano nelle loro esibizioni per sedurre le femmine.

Perciò vista l’oggettiva difficoltà nel definire un colore e le sue varietà, l’uomo ha cercato di catalogarli fin dall’antichità. I primi studi sul colore risalgono alla fine del XVII secolo, e non poteva che pensarci un artista: l’olandese Boogert. Nel suo Traité des couleurs servant à la peinture à l’eau, un libro di quasi 800 pagine risalente al 1692, Boogert descrive minuziosamente come combinare i colori ad acqua per creare sfumature e tonalità aggiungendo solo una, due o tre parti di acqua. Il libro, scritto e illustrato a mano, è la guida ai colori più completa di quel tempo. Ed è impossibile non compararla all’odierno Pantone: la “Bibbia” di chiunque si occupi di grafica.

Il sistema Pantone è stato messo a punto negli anni cinquanta dall’omonima azienda statunitense per classificare i colori e tradurli fedelmente nel sistema di stampa grazie a un codice composto da due campi. Senza “brutte sorprese”. Un sistema che ormai è diventato la norma internazionale e che racchiude in quella che viene definita “mazzetta” una quantità di colori inimmaginabile. Talmente tanti che non ci sono ancora nomi per tutti, e molti restano un semplice codice.

La penuria di nomi non ha impedito però che Pantone lasciasse un’impronta indelebile nel mondo creativo e della moda, diventando un vero e proprio trend setter. Tanto che, a partire dal 2000, Pantone sceglie un colore che sarà rappresentativo dell'anno venturo. Ad esempio il 2018 è – e sarà – Ultra Violet, codice 18-3838. E difatti l’Ultra Violet ha già conquistato le passerelle dell’Haute Couture, la regina Elisabetta, le confezioni di cosmetici e profumi, e persino il colore dei capelli di molti Influencer e fashion blogger.

In soli cinquant’anni Pantone ha rivoluzionato la storia del colore, del digitale, della moda e non solo, ha travolto (e in alcuni casi semplificato) il lavoro di grafici e illustratori, ma ha inglobato nel suo mondo colorato anche designer, fotografi e artisti di tutto il mondo. Sì, perché con i codici e i colori Pantone è stato campionato di tutto: dalle bandiere ai paesaggi, dai quadri ai vestiti. E persino il cibo.

L’esperimento più goloso è sicuramente Choctone, nato dalla creatività di Cazapix, uno studio grafico con sede a Ginevra. Choctone non è altro che una palette dedicata esclusivamente alla cioccolata, con tanto di codice colore: la C sta per cioccolata, la N per nocciole, la H per miele e la G per uvetta.

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E sempre per i più golosi continuano le palette culinarie o ispirate al cibo, come quelle del blog francese Griotte, in cui frutta e ortaggi si intonano alle stoviglie e le stoviglie si intonano delicatamente e prendono la forma di una vera e propria palette.

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Ma alcuni artisti sono andati più a fondo con i loro progetti, raccontando e catalogando più o meno consciamente la biodiversità. C’è chi, come l’artista Lucia Litman, con i codici Pantone ha catalogato il colore degli ortaggi, dai funghi ai cavoli passando per i pomodori; i colori delle bocche di leone, di rose e peonie; i colori della buccia degli agrumi, degli acini d’uva e persino del guscio delle uova che usiamo in cucina.

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Insomma, in qualche modo, ecco che con la mazzetta Pantone sono state descritte e catalogate innumerevoli delizie, ognuna delle quali è, in realtà, o una specie a sé o quanto meno una varietà. Dallo champignon Agaricus bisporus, al pomodoro Solanum lycopersicum, dall’uva Vitis vinifera al limone Citrus limon, fino al genere Peonia e Rosa e alle innumerevoli razze di galline ovaiole: dalla Araucana dalle uova blu, alla Livornese che depone uova dal guscio bianco.

Ma l’interesse degli artisti per la catalogazione con Pantone non poteva non risparmiare l’essere umano. È così che è nato Humanae (work in progress), il progetto dell’artista brasiliana Angelica Dass, che attraverso quelle che sembrano semplici fototessere ha realizzato un vero e proprio inventario di (quasi) tutte le tonalità della pelle di Homo sapiens. Mai come in questo caso davanti all’occhio dell’osservatore si rivelano infinite sfumature e gradazioni, che impediscono di fatto dare una definizione univoca di pelle bianca, nera o gialla. Il lavoro della Dass crea così un colpo d’occhio d’effetto, che forse dovrebbe osservare con più attenzione anche Attilio Fontana.

L’idea del progetto, infatti, è proprio quella di far comprendere quanto sia distorta la divisione in “razze umane”, assolutamente priva di fondamento scientifico. Dall’alba dei tempi Homo sapiens è andato in giro per il mondo mescolandosi addirittura con specie diverse come Neanderthal. E oggi come allora, nell’era della globalizzazione, continuiamo a mescolare i nostri geni, tanto che ognuno di noi differisce da un altro essere umano preso a caso solo dello 0,5% dei suoi geni. Indipendentemente dal colore della pelle.

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